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Guardare alla morte da un'altra prospettiva (versione integrata)

Le grandi innovazioni della tecnologia biomedica e della scienza in generale sono in grado oggi di mantenere in vita malati per i quali in passato non vi era alcuna speranza. Oggi è possibile prolungare artificialmente la sopravvivenza nel corpo, pur sapendo che non ritroveranno mai più una condizione di vita accettabile. Tale iniziativa viene comunemente definita “accanimento terapeutico”. La definizione di morte cerebrale, risalente alla fine degli anni '60,  ha permesso peraltro lo sviluppo della chirurgia dei trapianti, quando in precedenza il prelievo degli organi da un paziente con cuore ancora battente era considerato reato.

Al centro dell'odierno dibattito scientifico e sociale ci sono interrogativi etici sempre più cruciali: fino a che punto è giusto mantenere in vita un corpo ormai logoro e incapace di assicurare la minima dignità all'insieme bio-psico-spirituale definito persona? Qual è la linea che segna il confine decisivo tra l'ineludibile assistenza medica e l'accanimento terapeutico? Ovviamente, almeno da parte di chi scrive, la soluzione non è certo la deriva del postumanesimo, il bionico cyber-man, né le agghiaccianti promesse di artificiale immortalità del transumanesimo. 
Per inciso ricordo che l'immortalità attiene alla coscienza dell'individuo, e che tale coscienza non ha nulla a che fare con le cose: non è materia, bensì spirito. Non essendo una cosa tra le cose, la coscienza non la si può trasferire da un corpo all'altro o registrarla su hardware al silicio. 
L'Opa spesso influenza l'artista, così come l'intelligenza artificiale può influenzare quella dei suoi incauti “creatori”.

La ricerca del delicatissimo equilibrio tra spirito e materia, ritengo sia ormai la sfida per eccellenza, di portata antropologica, la più ardua di quest'inizio di terzo millennio.

La vicenda di Eluana Englaro ed altre simili, come quelle di  Piergiorgio Welby e di Terry Schiavo,  hanno fatto riflettere il mondo intero, evidenziando l'urgenza di tale riflessione.

Il valore incomparabile della libertà, della sacralità e della dignità della vita e del rispetto di tutte le vite, dovrebbe essere patrimonio comune dell'umanità come tale, a prescindere dall'orientamento scientifico o religioso individuale, e andrebbe tutelato non solo nei confronti degli umani ma verso ogni vivente, anche se non umano. 

E' la vita che va tutelata in ogni sua manifestazione. Sulla base di tale imprescindibile valore comune, la scienza, la cultura laica e religiosa, possono offrire prospettive preziose di comprensione, da cui derivare suggerimenti e orientamenti che aiutino ciascuno di noi a ben definire le proprie scelte, poiché in ultima analisi non può che essere il singolo individuo, nell'intimo della propria coscienza, ad essere responsabile di determinare il rispetto delle libertà altrui.

Nel complesso contesto umano, sociale e scientifico diventa sempre più importante, e ormai urgente, offrire informazioni e insegnamenti sul processo del morire ma anche sul post-mortem, secondo prospettive medico-scientifiche ma necessariamente anche spirituali, umanistiche ed esistenziali, operando con sensibilità e riguardo, affinché ciascuno possa costruirsi – liberato da intrusioni o pregiudizi culturali - una chiara visione del proprio volere e darne esplicita ed altrettanto chiara indicazione attraverso il testamento biologico ed altri utili strumenti che la società potrà individuare e destinare a questo scopo.

Possiamo avere migliori opportunità di auto-determinare il nostro presente e il nostro futuro se ci apriamo ad una più profonda comprensione del fenomeno morte, prendendo le distanze dai tanti tabù e dalle tante rimozioni dell'immaginario collettivo che abitualmente ne ostacolano una matura elaborazione. Infatti, solo crescendo in consapevolezza possiamo  crescere in senso di responsabilità e libertà.

A questo scopo chi scrive si è occupato personalmente e per anni dell'assistenza ai malati incurabili, ai parenti stretti di tali malati e a tutto il corpo medico coinvolto nella cura e nell'assistenza, offrendo strumenti di riflessione sulla base della tradizione sociologica, psicologica, filosofica e spirituale indovedica che può estendere in maniera significativa la nostra percezione e concezione della persona e dell'evento morte. Il come lo si può comprendere attraverso un tessuto continuo di considerazioni intimamente collegate fra di loro, peraltro contenute nel testo “Psicologia del Ciclo della Vita. Esperienze oltre nascita e morte”.

Ma non chiediamoci soltanto cosa fare con gli organi di un corpo ormai giunto al capolinea di questo segmento di vita; pensiamo piuttosto al futuro di quella persona che lo ha abitato e che, secondo la prospettiva indovedica, continuerà la propria esistenza anche dopo aver lasciato quell’involucro fisico.

Come aiutare la persona ancora imprigionata in quel corpo ormai logoro?
Come stimolarla a prepararsi interiormente al suo abbandono?
Come orientare il percorso evolutivo che principierà dopo l'avvenuta morte clinica?

La risposta a questi interrogativi è importante non solo per chi opera nel settore sanitario ma per ogni individuo.

Accoglienza, assistenza e accompagnamento sono in questo ambito tre concetti chiave.

  • Accogliere significa incontrare l’altro, aprire non solo le braccia, ma anche il cuore e la mente.
  • Assistere vuol dire intervenire con delicatezza, entrando in empatia, prestando ascolto alle modalità e ai bisogni dell’altro.
  • Accompagnare significa mettersi a fianco della persona, senza precederla, ponendosi talvolta dietro di lei, essere una presenza umile e affettuosa, stimolandola a procedere. Accompagnare è sospingere dolcemente, far giungere a destinazione con calore ed empatia, compassione e misericordia.

La tradizione indovedica bhaktivedantica non utilizza tecniche psicoterapeutiche, ma offre insegnamenti volti allo sviluppo di una visione cosmica della vita, dell’uomo e del mondo, che non si limita alla risoluzione di disagi psicofisici ma opera in vista della elevazione della consapevolezza globale, affinché chi la applica possa riscoprire l'interezza della propria natura spirituale ed esprimere tutte le proprie potenzialità e aspirazioni più nobili, affrontando anche la morte in uno stato di pace interiore.

Perché esiste la morte?
Chi o che cosa muore?
Come ci possiamo preparare?
In cosa consiste il morire?
Come assistere il malato nello stadio terminale?
Come interagire con i suoi familiari e con il personale sanitario?

Interrogandosi sinceramente su tali domande si perviene a intuizioni sorprendenti, talvolta in grado di farci sentire oltre il cangiante flusso di questo mondo rutilante e ingannevole (i Veda lo definiscono maya che significa “illusorio”).
La prima domanda da porsi è: quando l’obiettivo cura medico-farmacologica non è più raggiungibile, cosa si può fare per prendersi cura della persona? Si può trasformare un evento traumatico come la morte in un'esperienza evolutiva? La risposta è sì!

Il fenomeno morte viene abitualmente vissuto come fine di tutto, dissoluzione, scomparsa, con tonalità che vanno dal rassegnato al drammatico, fino al disperato. Eppure, secondo la tradizione filosofico-spirituale indovedica la morte non esiste come entità, ma solo come concetto o momento di passaggio da un segmento di vita ad un altro. 

Attraverso un percorso di consapevolezza, ogni essere umano può  imparare a “viverla” percependo che la propria identità è diversa da quella del corpo e scoprendo di fronte a sé una nuova fase della propria eterna esistenza, da progettare costruttivamente.


La Bhagavad-gita (II.20) afferma: "L'essere non nasce, né muore. E' eterno. Non muore quando il corpo è distrutto…"

Tagore scrive: "Si cammina quando si leva il piede come quando lo si posa. Come l’alba prepara un nuovo giorno che giungerà poi al tramonto, così il tramonto, attraverso la notte, cederà il posto ad una nuova alba."

La vita scorre incessante e se ne comprendiamo il senso evolutivo e infine il suo arcano significato trascendente, possiamo superare anche la paura più grande, quella della morte e – realizzando l'immortalità della nostra essenza – ridare nuova speranza alle profonde aspirazioni di ogni essere verso autentiche libertà e felicità, oltre i limiti dello spazio e del tempo.

Marco Ferrini (Matsya Avatar Das)

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