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La VERITA’, Inconcepibilmente Uguale e Diversa

L'arcano principio di simultanea differenza e non differenza nella triade Dio creatore, creature e creato

Il termine sanscrito ahimsa è composto dalla negazione a, 'non' e himsa, forma desiderativa del verbo han 'uccidere, nuocere'. Tradizionalmente ahimsa indica l'assenza del desiderio di nuocere o danneggiare in alcun modo qualunque essere vivente, e non solo con le proprie azioni, ma anche con i pensieri, desideri e parole. Anche proferire menzogne è una forma di violenza, così come tenere soltanto per sé ciò di cui anche altri hanno bisogno.
In tale contesto il principio di ahimsa va dunque ben oltre il concetto di "non uccidere" o "non nuocenza", poiché implica un atteggiamento globale, onnicomprensivo, di rispetto e valorizzazione di ogni vivente. La pratica del vegetarianismo, finalizzata al rispetto del valore della vita, rappresenta dunque solo uno dei tanti aspetti del principio di ahimsa.
L'accezione più ampia del termine trasmette una serie di valori positivi, quali empatia, compassione, amicizia, gentilezza, benevolenza, amore universale che, praticati nella loro essenza ed autenticità, ispirano la convivenza civile e favoriscono l'evoluzione di ogni essere.

"Nessuna cultura può sopravvivere se persegue un bene esclusivo."
Mahatma Gandhi

"Io (Dio) sono il sapore dell'acqua,
lo splendore del sole e della luna.
Io sono il suono nello spazio.
Io sono la forza dell'umanità.
Io sono il dolce profumo della terra.
Io sono il fulgore del fuoco.
Io sono la vita di tutti gli esseri."

Bhagavad-gita VII.8-10.

Nella tradizione indovedica una delle componenti fondamentali di ahimsa è il rispetto verso ogni forma di vita: vanno tutelati nel loro diritto ad un'esistenza dignitosa non solo gli umani, ma anche gli animali ed ogni altra creatura, poiché la compassione, la solidarietà e la misericordia non possono e non debbono essere riservate ad una sola razza o specie. In questo contesto il vegetarianismo rappresenta un'indispensabile scelta etica, fondata sulla consapevolezza che il sé spirituale (atman), l'essenza di origine divina che è espressione stessa della vita, dimora in ogni creatura vivente a prescindere dalla sua temporanea struttura psicofisica.

Ovviamente anche le piante sono esseri viventi per cui l'alimentazione vegetariana non può essere considerata in assoluto ahimsa, ma in questo mondo, dove ogni corpo è cibo per un altro corpo, non è possibile fare altrimenti: il massimo che l'uomo possa fare per nutrirsi e sopravvivere è scegliere di causare la minore sofferenza possibile. Nella tradizione indovedica si raccomanda la dieta vegetariana, poiché gli esseri in corpi vegetali hanno una struttura psicofisica relativamente involuta e la loro sensibilità o capacità di provare dolore è nettamente inferiore rispetto a quella degli animali. Inoltre, nella maggior parte dei casi, è possibile raccogliere frutta e verdura senza sradicare o uccidere la pianta. E' importante poi considerare che tradizionalmente, prima di nutrirsi, viene compiuto il rito dell'offerta del cibo a Dio che permette di rendere sacro l'atto del mangiare, affinché esso favorisca la purificazione e l'elevazione della coscienza di ogni creatura, in armonia con le leggi universali della vita.

La cosmogonia vedica considera l'universo come indissolubilmente collegato in tutte le sue parti, in una continua interazione tra creato, Creatore e creature tutte.

Animali, piante e umani possono sopravvivere nella misura in cui si riconoscono, si integrano e si armonizzano tra loro e con l'ambiente in cui vivono; se invece si negano reciprocamente, non possono che soffrire e perdere sempre più la loro contestualizzazione e sinergica funzione nell’universo.

Nei Veda e nella letteratura dei sei sistemi filosofici classici indiani (shad darshan), l'animale è considerato sacro, come le piante e l'umanità tutta, in quanto costituito di quell’essenza spirituale che tutto pervade, che è il sostegno stesso della vita, in ogni sua manifestazione, e che i Veda chiamano Brahman.

L'incarnazione in una determinata specie vivente, in un corpo animale, vegetale o umano, è conseguenza del proprio karma, ovvero delle proprie azioni e della visione che l'essere ha sviluppato.
Come spiega infatti la Bhagavad-gita (XIII.22), la trasmigrazione in una particolare yoni o matrice corrisponde ad una particolare forma mentis che si è sviluppata, ma ciò non inficia assolutamente il valore dell'identità eterna del sé spirituale, immutabile nella sua essenza a prescindere dei corpi psicofisici di cui si riveste.
La tradizione indovedica spiega che la non violenza è necessariamente l’esito di un impegno personale, di sforzi coordinati e costanti tesi a sviluppare una consapevolezza profonda del valore di ahimsa in tutte le sue innumerevoli componenti ed implicazioni. Tale consapevolezza implica una visione ampia di tutte le dinamiche in campo, ed è infatti il presupposto indispensabile per individuare in ogni circostanza la corretta linea di comportamento da seguire, quella capace di favorire nel concreto il rispetto della non violenza a tutti i livelli (individuale, familiare, sociale, politico, economico, artistico, scientifico, ecc.).
Essere davvero interessati a perseguire la non violenza significa essere interessati a conoscere le leggi universali del dharma, che i religiosi induisti ritengono l’espressione di un’Intelligenza superiore, la Coscienza cosmica, Dio, e ad armonizzarsi con esse. Ahimsa vuol dire sincronizzare le proprie dinamiche alle dinamiche cosmiche; imparare a muoversi in armonia con quell’ordine etico universale che già esiste (non c’è da inventarlo!), e la cui infrazione è causa di squilibri, lacerazioni, conflitti, dentro e fuori di noi. La non violenza non costituisce quindi unicamente una necessità di ordine etico-morale, ma è fattore indispensabile alla sopravvivenza stessa dell’uomo, la cui vita è strettamente ed indissolubilmente collegata a quella di tutto il creato e di tutte le creature. In mancanza di tale consapevolezza, la non violenza è purtroppo destinata a rimanere un concetto dal significato assai vago, pronto ad essere strumentalizzato da chi in verità persegue altri scopi, totalmente immanentistici: mondialismo, panteismo, egalitarismo e altre parodie del sacro, dove tutto appare senza confini.

Ogni religione autentica è portatrice di una visione trascendente o trascendentale, poiché insegna, seppur in termini e modi diversi, che niente è spiritualmente separato dal resto, che la parte è collegata al tutto e viceversa. Il sostantivo “religione” deriva dal latino religere che significa ‘raccogliere, unire’, così come il termine Yoga deriva dalla radice sanscrita yuj avente lo stesso significato: ‘collegare, unire’. Senza Yoga, ovvero senza la ricongiunzione della coscienza individuale alla Coscienza cosmica, a Dio, non può sussistere vera non violenza, poiché quest’ultima si realizza soltanto quando la persona ha acquisito una consapevolezza profonda dell’unitarietà di tutto ciò che esiste conservando le proprie peculiari caratteristiche, quando percepisce la sorgente comune che tutto amorevolmente collega, e avverte che il proprio benessere non potrebbe sussistere separato da quello altrui.
Bhagavata Purana III.25.21. Traduzione liberamente tratta da Shrimad Bhagavatam, tradotto e commentato da Bhaktivedanta Swami Prabhupada, Firenze, Edizioni Bhaktivedanta,1993, p. 72.
Bhagavad-gita VII.8-10. La traduzione è di chi scrive.
Si veda Bhagavata Purana I.13.47.

Marco Ferrini
(Matsya Avatar das)

 

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